Girl with a balloon, Banksy 2002
https://artslife.com/2021/07/23/banksy-al-teatro-nuovo-di-milano-le-date-dall8-settembre-al-31-ottobre/
Viviamo in un’età, quella tardo-capitalistica, in cui le produzioni tecniche e culturali un attimo dopo la loro nascita diventano già obsolete. Ciò avviene in tutti i campi: nella tecnologia (medicina o industria) ma anche nell’ambito delle espressioni culturali umane. Infatti, l’arte sembra cedere il passo alla pubblicità, al marketing, alla moda, al design, modi di esprimersi dell’uomo tipicamente di breve durata, al contrario dell’arte che mira invece a rappresentare l’essenza universale dell’uomo. Ma perché è avvenuto tutto ciò?
Le ragioni
Le ragioni vanno cercate lontano. Prima di tutto nello sgretolarsi di certezze che l’uomo credeva ancora di avere e che ha vissuto tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo. Uno studioso come Freud descrisse un uomo non più monolitico nella sua interiorità ma frammentato e instabile: l’”io” capiva di non essere padrone nemmeno di sé stesso e della propria coscienza.
Un altro pensatore di grande influenza, Nietzsche, mise in atto una sferzante critica ai valori etici, estetici e conoscitivi assoluti mettendo in dubbio, persino nella loro esistenza, i concetti di bontà, bellezza e verità così come erano stati concepiti in precedenza, prefigurando l’avvento di un uomo completamente rinnovato.
Marx, ancora prima di loro, aveva fornito ai ceti sociali più bassi della popolazione una formulazione teorica che li legittimava nell’attuare una profonda trasformazione della società a loro favore, mettendo in crisi l’equilibrio politico di quel tempo e dei tempi a venire.
Altre ragioni che motivano un cambiamento così radicale nell’espressione dell’uomo vanno sicuramente ricercate nelle vicende storiche che hanno visto susseguirsi, per rimanere solo al secolo scorso, due guerre mondiali, genocidi, totalitarismi e altri eventi catastrofici che hanno minato la fiducia dell’umanità in un futuro migliore. E tuttavia, il rapido, anzi rapidissimo sviluppo delle tecnologie, che possono essere di ausilio all’uomo (ma anche di danno), ha dato inizio a cambiamenti così radicali che molti osservatori pensano oggi stiano plasmando la natura stessa dell’uomo. L’uomo non sa più chi è, e questo dunque, lo mostra soprattutto (nel)l’arte. Fu anche coniato il termine “postmoderno” durante gli anni ’80 per evidenziare la condizione dell’uomo incredulo nei confronti delle cosiddette “metanarrazioni”, cioè le ideologie, gli “-ismi”, le grandi cornici di pensiero in cui l’uomo aveva fino a quel momento creduto.
L’arte, nel frattempo, si stava pure separando dalla vita reale. E questo per l’avvento di almeno quattro fenomeni.
1) L’imperialismo e il colonialismo avevano partorito come vetrina del potere dello stato-nazione la forma del museo, che relegava le opere in un luogo distinto dal quotidiano e che inizialmente era pensato come esposizione delle glorie dello stato.
2) Il capitalismo crescente invece dava alla luce approcci diversi nei confronti dell’arte come le collezioni private e lo stesso mercato delle opere che rendeva e rende ancora oggi difficile l’individuazione del reale valore di un’opera d’arte. Valore che da estetico diventava economico. Arte è ciò che è il suo mercato.
3) L’industrializzazione. Questo fenomeno inarrestabile arrivò a modificare anche la figura dell’artista. Egli cessava di rappresentare l’unico autore di una qualche opera e iniziò il suo (auto)isolamento, emblema spesso di critica verso lo stato di cose presente mentre invece il processo di produzione si frammentava e spersonalizzava come mostra la famosa “catena di montaggio” che aveva, come conseguenza, l’alienazione del lavoratore.
4) In ultimo luogo l’estetica, disciplina che studiava la conoscenza sensibile dell’uomo e l’arte, adesso diventava filosofia dell’arte. L’arte diveniva allora oggetto di contemplazione, elitaria, separata dalla fruizione diffusa dei cittadini.
Le trasformazioni dell’arte
Nel corso del ‘900 i cambiamenti nel mondo dell’arte diventarono rivoluzioni e coinvolsero contenuti, forme artistiche e fruitori. Per quanto concerne i contenuti nacque il brutto artistico, il kitsch, il camp, ma ancora prima le avanguardie espressero visivamente le inquietudini dell’uomo talvolta facendolo in una maniera concettuale e astratta esasperata.
Le forme artistiche si moltiplicarono, sebbene non fossero dimenticate quelle tradizionali. Nacque una vera e propria “industria culturale”, che eludeva i confini tra arti “alte” e “basse” e che era elaborata per le masse ma non dalle masse. La ragione d’essere principale delle opere dell’industria culturale come la letteratura di massa (i gialli, i fantasy eccetera), la ancora giovane industria cinematografica, alcuni generi di musica e oggettistica era ora principalmente il profitto. Tramite le operazioni di un marketing in profonda trasformazione, tutti i beni, anche quelli artistici, divenivano merci. La pubblicità, nelle sue varie forme, sempre più trasformava le merci in simboli, degni di essere posseduti, a prescindere dal bisogno. Le merci non erano fruite ma consumate e cominciava a risiedere nel consumo stesso il senso o il significato che invece garantiva la distinzione tra il necessario e il superfluo. Il cangiante e seducente marketing, secondo le modalità dell’antico trickster, e specie negli ultimi tempi, trasforma le merci in miti, oggetti idealizzati, quasi da venerare tramite culti.
Caratteristiche del nuovo consumatore sono ossimori: la credulità consapevole e l’interesse disinteressato. La prima perché l’utente si auto-inganna volontariamente, accettando le regole della promozione del prodotto, lasciandosi sedurre. La seconda è vista dalla parte degli agenti del marketing che sanno molto bene che per conquistare l’utente bisogna non forzarlo ma rapirlo nella mente, rendendolo (quasi) dipendente in modo tale che sia lui stesso a protendere corpo e mente verso il prodotto, in maniera, in apparenza, “libera”.
È così che “il medium è il messaggio”, come scriveva Marshall McLuhan, che sarebbe come dire “la forma è sostanza”. Siamo, negli ultimi decenni, entrati nell’epoca postmoderna o tardocapitalistica in cui il mezzo (medium) attraverso il quale comunichiamo, che comprende anche il modo in cui lo facciamo, specie nell’ambito promozionale, diventa il messaggio stesso da comunicare. Che sia radio, giornale, televisione, internet o social network il medium, la modalità di promozione di un prodotto sarà diversa per ogni mezzo in base alle caratteristiche del mezzo stesso e del tipo di pubblico.
Medium quindi implica un repertorio di linguaggi, di effetti sonoro-visivi e speciali e molto altro. Medium non è propriamente il messaggio, ma è costitutivo dell’essenza del messaggio e quindi è messaggio.
Il nostro modo di percepire dunque ciò che ci sta intorno, dai comuni oggetti quotidiani alle opere d’arte, è dunque stravolto rispetto già a solo un secolo fa. Ma sono cambiati i nostri sensi o la nostra mente? Certamente la nostra mente, che ormai lavora su e da un bagaglio di conoscenze maggiori e abitudini ben diverse da prima. Ciò nonostante, potremmo ammettere che i nostri sensi come l’udito o la vista abbiano oggi sviluppato delle “sensibilità estetiche” diverse dal passato, basti pensare all’influenza che hanno su di noi video-montaggi o effetti speciali. L’occhio non è storico, ma noi si.
Il dilemma attuale
In questa società dello spettacolo, come l’avrebbe chiamata Guy Debord, cioè mediata dalle immagini, dagli effetti, dall’apparenza, dall’industria culturale, dal mito della produzione e del consumo, l’arte, che per alcuni intellettuali dev’essere rivoluzionaria, ovvero rappresentare una ribellione nei confronti dello status quo, un altro modo di pensare da quello conformistico, sembra stare perdendo la partita. Oppure si sta solo trasformando?
Se seguissimo il primo corno del dilemma potremmo affermare, con Walter Benjamin, che i pezzi d’arte hanno perso irrimediabilmente la loro “aura”, cioè la loro unicità. L’aura classica è come una vicinanza avvertita come lontana. Al cospetto di un’opera come, per esempio, la Pietà vaticana di Michelangelo si avverte un piacere causato dalla presenza dell’opera vicina allo spettatore, dalla partecipazione alla meraviglia. La presenza è vicinanza. Ma quell’opera rimane unica per sempre, perché inimitabile nel tempo e nello spazio, perché capace di evocare emozioni uniche e pone dunque una separazione tra lei stessa e noi, anche perché il piacere della presenza di essa è sufficiente a soddisfarci, non causando in noi la volontà di possederla. L’opera è “auratica”, perché unica in maniera vicina e lontana. Le opere d’arte della contemporaneità, secondo Benjamin, hanno perso il loro valore auratico: prima di tutto perché non sono più uniche, ma possono e anzi devono essere ripetute, riprodotte (pensiamo ad Andy Warhol e alla sua pop art), inflazionate in tutte le modalità. Ma poi anche perché la fruizione del pubblico, che prima era di raccoglimento, silenzio e riflessione, oggi è distratta, fugace e considera la quantità come valore supremo a discapito della qualità.
The Marylin Diptich, Andy Warhol 1962.
https://www.tarantobuonasera.it/news/68458/andy-warhol-lalchimista-a-martina-franca/
Un pubblico di questo tipo, secondo il filosofo tedesco, è rimasto debole di fronte alla “estetizzazione della politica” condotta dai regimi totalitari. La sensibilità estetica, ovvero la percezione sensoriale della gente, è stata manipolata dai regimi allo scopo di dirigere i popoli ideologicamente. Immagini, manifesti, eventi e celebrazioni spettacolari sono tutti modi di estetizzare la politica. Ciò a riprova della rilevanza che le espressioni artistiche possono ricoprire anche in ambito politico, oltre che, come sappiamo, in ambito sociale. Ma a tutto ciò v’è un possibile rimedio per Benjamin: la “politicizzazione dell’arte”. Questa condotta è necessaria perché l’arte non sia disinteressata all’etica degli uomini e dia quindi un contributo concreto al miglioramento della loro convivenza e alla promozione della loro libertà. L’arte deve essere di lotta e di denuncia, non restando rintanata nei musei come simbolo di speculazione disinteressata.
Seguendo però l’altro corno del dilemma, potremmo anche mostrare come si siano affermate prepotentemente altre espressioni d’arte, e che quindi questa si sia trasformata. Intendiamoci: con ciò non affermo che non si realizzino più quadri o statue, ma espressioni come il design e la moda, che propongo come inserite nel variegato mondo dell’arte tardocapitalistica, stanno cambiando lo status ontologico stesso dell’arte.
Il primo è un ibrido tra arte e tecnica, tra invenzione e produzione seriale, tra fantasia e utilità. Gli sviluppatori del designhanno il compito non solo di implementare soluzioni per l’usabilità, ma anche di moltiplicare le vendite soddisfacendo i sensi dei consumatori. Il design possiede un codice universale incapace di instaurare un rapporto intimo con il fruitore, come può capitare tra uno spettatore e un quadro o una statua, perché è riprodotto industrialmente, in maniera standardizzata. È oggi pervasivo poiché come si dice, l’occhio vuole sempre la sua parte, e l’utilità di un prodotto non esclude la possibilità che questo sia “bello”.
La moda invece potremmo definirla come un lifestyle, una modalità dell’uomo di darsi un’identità attraverso il tempo che però risulta rappresentato come fluttuante e frammentato. È così che l’uomo percepisce la propria identità, esattamente come se la rappresenta tramite la moda: in maniera fluttuante e frammentata. Moda è ciò che passa di moda, ciò che oggi risulta popolare e domani non più. E questo risulta confermato anche dal più ampio uso semantico che si fa del termine “moda”, cioè come consuetudine del tempo presente. Questo modo d’essere cangiante e volubile delle espressioni umane (applicabile anche al già citato design) mostra da una parte un uomo che non conta più (o non può più contare) su certezze e valori etici, estetici e conoscitivi stabili e questo anche a motivo della sua intensa attività intellettuale che sta vivendo in questa stagione e al contributo massiccio di innovazioni.
Il tempo
Dunque, le ragioni non sono solo di natura negativa, ma tant’è: la “Scuola di Atene” di Raffaello parla ancora oggi di concetti immortali come le idee o il pensiero mentre un’opera di Marina Abramovic trasforma radicalmente l’essere dell’arte, che diventa essa stessa performance con il corpo dell’artista e con una durata limitata. Un’opera di Anselm Kiefer vuole affermare sé stessa e la sua stessa distruzione in un dittico inestricabile. E ancora: Christian Boltansky o Bill Viola lavorano anch’essi sul tempo (quindi non su ciò che permane) e sul suo trascorrere, lento o veloce non importa. Ma evidenziano in modo inequivocabile il suo passare, forse volendolo quasi fermare per opporsi al nostro destino.
Gli interpreti di oggi ci restituiscono un’esperienza di vita oggi percepita come effimera, cioè caduca e transitoria. La parola “effimero” proviene dal greco antico e dalle parole “epì”, che indica ripetizione, ed “emera”, cioè “giorno”. È come se l’effimero usasse il giorno di ventiquattro ore come unità di misura per sé stesso. L’effimero dura ventiquattro ore. E dopo di lui, sopraggiunge un qualcosa di parimenti effimero che durerà anch’esso così poco. E così via, in una “ripetizione di giorni”. Non possiamo non pensare alla moda, o meglio, al nostro modo di vestirci: ogni giorno un abito diverso.
The Artist is present, Marina Abramovic, 2010.
https://artslife.com/2019/07/29/marina-abramovic-mostra-pinacoteca-ambrosiana-milano/
Ma allora: c’è ancora posto per l’arte? Io credo di si. Ma non l’arte di chi si autoproclama artista o di chi non riconosce più la competenza di storici o critici d’arte. Non l’arte di chi propone scuse per calpestare riflessioni e competenze anche tecniche. Ci sarà sempre posto per l’arte che ci dirà chi siamo (anche in maniera effimera) e chi non dobbiamo essere o diventare. Ci sarà sempre posto per l’arte che denuncerà le rovine e le macerie che abbiamo lasciato sul nostro cammino e che proporrà un futuro di pace e solidarietà. Ci sarà sempre posto, infine, per l’arte nelle sue varie forme, anche se, come scriveva Theodor Adorno, può sembrare che “scrivere una poesia dopo Aushwitz sia un atto di barbarie”. E questo perché l’arte getta un ponte con il trascendente che permette a tutti noi di ascoltare noi stessi e ciò che veramente conta.
Stefano Guarrera
Bibliografia
John Dewey, Arte come esperienza, Aesthetica Edizioni, Sesto San Giovanni 2020
Theodor W. Adorno, Parva Aesthetica, Mimesis, Sesto San Giovanni 2011
Marshall McLuhan, Il medium è il messaggio, Corraini, Mantova 2011
Guy Debord, La società dello spettacolo, Massari, Bolsena 2002
Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Segrate 2014